Netanyahu, guerra come dottrina: una lunga strategia tra occupazioni, invasioni e propaganda
«Israele aggredisce, l’Occidente giustifica. Israele opprime, l’Occidente santifica. Israele uccide, e l’Occidente lo abbraccia.» È con queste parole che lo scrittore Alessandro Di Battista sintetizza una traiettoria storica precisa: dalla Nakba del 1948 alle guerre contemporanee, le azioni militari israeliane sono state sistematicamente assorbite e giustificate all’interno del quadro politico occidentale come atti di legittima difesa.
Ma i fatti raccontano un’altra storia. Una storia fatta di occupazioni, repressioni, massacri e bugie strategiche, spesso ben confezionate e accettate senza troppe domande. A guidare questa linea, dagli anni Ottanta in poi, c’è Benjamin Netanyahu, ideologo della guerra preventiva, convinto assertore della forza come strumento di politica estera.
La lunga ombra della Nakba
Tutto inizia nel 1948, quando oltre 700.000 palestinesi vengono cacciati dalle loro terre nella tragedia della Nakba. È il principio di un’escalation mai conclusa: nel 1967, a seguito della Guerra dei Sei Giorni, Israele occupa illegalmente Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est e le Alture del Golan. Secondo il diritto internazionale e numerose risoluzioni dell’ONU, si tratta di territori illegittimamente occupati. Eppure, quella che avrebbe dovuto essere una misura temporanea si è trasformata in una vera e propria colonizzazione permanente, sostenuta e finanziata da governi israeliani di ogni colore.
Il quadro si aggrava nel 1982, quando Israele invade il Libano, con l’obiettivo dichiarato di distruggere l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). L’invasione causa migliaia di morti civili e due eventi cruciali: i massacri di Sabra e Shatila (documentati, tra gli altri, da Robert Fisk e dalla Commissione Kahan) e la nascita di Hezbollah, gruppo armato sciita libanese sorto come diretta risposta all’occupazione israeliana del sud del Paese.
Netanyahu e il potere come supremazia
Nel frattempo, Netanyahu non è ancora un politico di primo piano, ma ha già una visione molto chiara. In un’intervista del 1980, affermava:
«Stiamo andando verso uno scontro con il Governo americano. Gli USA non sono un blocco unico. C’è il Senato, c’è il Congresso e c’è il potere ebraico che è enorme. È più forte di quanto sia mai stato. [...] L’America non ci imporrà nulla.»
Parole che mettono in luce un’idea precisa: la politica estera israeliana non accetta limiti né pressioni. Neppure quelle dell’alleato storico, gli Stati Uniti. Il contesto è importante: appena due anni prima, gli Accordi di Camp David avevano sancito la pace tra Israele ed Egitto, ma sul terreno, anziché passi avanti verso una convivenza pacifica, si assisteva all’ulteriore radicamento dell’occupazione in Cisgiordania.
Nel 1982, Netanyahu ribadisce la sua posizione in chiave ideologica:
«Se si eliminasse l’Unione Sovietica e il suo principale rappresentante, l’OLP, il terrorismo internazionale crollerebbe.»
È l’anno dell’invasione del Libano. Ancora una volta, le parole precedono le bombe. E ancora una volta, le vittime principali sono civili.
Le guerre preventive: Iraq, Libia, Iran
Nel 2002, Netanyahu assume il ruolo di promotore della guerra in Medio Oriente. A un anno dall’invasione statunitense dell’Iraq, dichiara:
«Se elimini Saddam e il suo regime, vi garantisco che ci saranno enormi effetti positivi sulla regione. [...] Non è una questione se si vorrebbe vedere un cambio di regime in Iran, ma come farlo.»
Nel corso dello stesso anno, durante un’intervista, a Netanyahu viene chiesto se vi siano altri Paesi verso cui gli Stati Uniti dovrebbero lanciare attacchi preventivi. La sua risposta è diretta:
«Sì, Iran, Iraq, Libia.»
Si tratta di un progetto di ristrutturazione violenta dell’intero Medio Oriente, fondato sullo stesso impianto ideologico che ha portato alla guerra in Iraq. Guerra che, come ormai dimostrato da numerosi report (tra cui quelli del New York Times, della CIA e delle Nazioni Unite), si è basata sulla falsa accusa che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa. Risultato: un Paese distrutto, oltre 600.000 morti civili, instabilità cronica e la nascita di nuovi gruppi terroristici.
A distanza di oltre vent’anni, le armi nucleari iraniane rimangono un argomento di propaganda. Perfino il New York Times ha recentemente smentito che Teheran possegga armi atomiche, contraddicendo le dichiarazioni ufficiali israeliane usate da anni per giustificare minacce militari e sanzioni.
Conclusione
L’idea che Israele agisca sempre e solo per “autodifesa” non regge alla prova dei fatti. Le dichiarazioni pubbliche di Netanyahu, le operazioni militari condotte da Israele negli ultimi decenni, la strategia della destabilizzazione preventiva: tutto punta in un’unica direzione. Una visione geopolitica fondata su supremazia, impunità e uso sistematico della forza.
In un mondo dove la narrazione dominante viene spesso spacciata per verità assoluta, il pensiero critico resta uno degli ultimi strumenti di resistenza.
Per una vera informazione, serve pensiero critico, non propaganda.
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Fonti:
Al Jazeera
The New York Times
Interviste pubbliche di Benjamin Netanyahu, 1980–2002
Rapporti ONU sulla situazione nei Territori occupati
Commissione Kahan sui massacri di Sabra e Shatila
Analisi storiche e giornalistiche sulla guerra in Iraq (2003)