Odio, missili e propaganda: stiamo perdendo il senso del vivere
È difficile non vedere il filo rosso – rosso sangue – che lega le cronache di questi giorni.
Iran e Israele si scambiano missili come cartoline, cariche di un odio antico, strutturato, metabolizzato. Teheran minaccia apertamente le basi americane, promette attacchi “venti volte più grandi” di quelli passati. Dall’altra parte, l’aeronautica israeliana bombarda con chirurgica ferocia i sistemi di difesa iraniani, spingendosi fin nei cieli di Teheran.
Le sirene in Galilea, le esplosioni nel nord d’Israele, i droni intercettati, i cadaveri contati. Tutto scandito da comunicati ufficiali e dichiarazioni enfatiche di vendetta. Missili, droni, rappresaglie, slogan. Nulla di nuovo sotto il sole rovente del Medio Oriente.
Ma la domanda più scomoda – e quindi assente dal mainstream – è questa: perché abbiamo così bisogno della guerra?
«Sono passati circa 80 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Forse, per l’uomo contemporaneo, è già troppo tempo dall’ultimo grande orrore? La pace non è un’abitudine facile da coltivare. L’umanità sembra incapace di vivere senza un nemico da odiare, una minaccia da temere, un “altro” da colpire e abbattere.»
L’odio è tornato protagonista nelle agende politiche, nei talk show, nelle piazze digitali e reali. Religioni ed etnie sono diventate maschere per il vero movente: il dominio. Il controllo delle risorse, la supremazia geopolitica, il prestigio militare. Ma nessuno osa dirlo chiaramente. Troppo scomodo. Troppo vero.
E così si fabbricano narrazioni di necessità, di difesa, di reazione. Tutto diventa “legittimo”, tutto diventa “necessario”. Ma è solo il teatro dell’orrore.
Teheran parla di una “risposta decisa” contro gli “aggressori”, mentre prepara 2.000 missili da lanciare su Israele. La guida suprema Khamenei profetizza “la rovina” dello Stato ebraico. Hamas applaude, ringrazia. Israele, dal canto suo, ha attaccato per prima il cuore del regime iraniano, parlando di una “minaccia esistenziale”, dopo aver già raso al suolo la Striscia di Gaza, affamando bambini e innocenti.
Ma il vero orrore è che tutto questo non scandalizza più nessuno.
Abbiamo normalizzato la guerra. Le breaking news sono diventate una litania che accompagna la colazione. Gli attacchi missilistici, le incursioni, le rappresaglie: fanno parte della “normalità” del nostro tempo. Non ci si chiede più come fermare tutto questo, ma solo come vincere, come abbattere il nemico ideologico creato dalla politica e dalla sua narrazione.
E se non ci fosse nulla da vincere, ma solo da perdere?
Oggi è il Medio Oriente, l’Ucraina, la Russia, l’India e il Pakistan; domani sarà Taiwan, il Mar Nero, l’Africa centrale, il Baltico. Ogni area del mondo è un potenziale campo di battaglia, una miccia pronta ad accendersi. Non esiste più uno spazio sicuro. L’equilibrio globale si regge sull’odio e sull’attesa di un pretesto per farlo esplodere.
Chi ha in mano il potere – politico, militare, economico – non lavora per disinnescare la bomba. Al contrario: la arma con cinismo, alimentando propaganda, paura, e l’identificazione forzata di un “male assoluto” da estirpare.
In questo clima malato, la diplomazia è diventata sinonimo di debolezza. Il dialogo, una perdita di tempo. La ragione, una voce fuori dal coro.
Benjamin Netanyahu lo dice chiaramente: l’obiettivo è “piegare l’Iran” e sterminare i palestinesi. Non si parla più di trattati, ma di obiettivi militari. Non di convivenza, ma di “ridisegnare il Mondo” – e il mondo, invece di indignarsi, partecipa o fa finta di non vedere. Intanto, gli aerei decollano, i missili volano, la morte lavora a tempo pieno.
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